La questione degli anziani in tempi di epidemia


di Antonio De Maria, dirigente ANS Liguria, Newsletter dell’ANS, 30 giugno 2020 – N. 09/2020, pp. 6-9.

 

Un altro aspetto evidenziatosi durante l’emergenza coronavirus riguarda la problematica degli anziani. Rappresentano, infatti, le persone che, prescindendo da altre considerazioni, vengono ritenute più fragili, poiché sono i soggetti più esposti all’aggressione da parte del virus. Ma chi sono nella realtà gli anziani? Il 63° Congresso Nazionale della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) alla fine del 2018 ha precisato che il concetto di anzianità deve essere messo in relazione sia alle performance fisiche e mentali del soggetto che vive in paesi sviluppati economicamente e socialmente sviluppati sia alla situazione demografica della popolazione. Secondo i geriatri, quindi, l’anzianità è un concetto che riflette le diverse condizioni demografiche ed epidemiologiche. La statistica, viceversa, fissa una soglia indicando come anziano il soggetto che abbia un’aspettativa di vita di dieci anni.
Il concetto di anziano ha subito nel tempo significati alquanto dissimili in funzione dell’organizzazione di vita prevalente. Nel mondo classico gli uomini anziani erano i detentori della potestà di governare: la decadenza del corpo non si identificava con la decadenza della saggezza. Anzi! Nell’Evo contemporaneo, ma soprattutto con l’Illuminismo, si sviluppa una maggiore attenzione verso le problematiche sociali dell’anziano: si approntano i primi ricoveri e si istituzionalizza il sistema pensionistico. Rispetto al mondo classico il pensiero prevalente nell’Illuminismo non consisteva
nel riconoscere all’anziano un ruolo attivo nella società, ma egli veniva emarginato garantendogli, comunque, una sussistenza dignitosa. Il motto africano secondo il quale i giovani corrono certamente più veloci, ma sono gli anziani che conoscono la via, sembra una celebrazione obbligata ma, in realtà, lo stesso motto gioca sull’equivoco interpretando il passo dell’anziano come un impedimento alla corsa verso gli obiettivi propri di una moderna società. Il termine anziano, a mio avviso, non può rappresentare quella categoria di persone che hanno raggiunto una determinata soglia di età. Considerare tali soggetti in questa modalità discriminante relativa all’età, non soltanto rappresenta un grave errore di
valutazione, ma, soprattutto, priverebbe la società di un patrimonio culturale, di esperienze vissute e quindi di cultura, che non possiamo certamente permetterci il lusso di disperdere.
La problematica degli anziani mi coinvolge particolarmente non solo perché la mia età anagrafica mi colloca inesorabilmente in questa fascia, e, quindi, l’argomento mi trova molto sensibile, ma anche perché esso rappresenta un capitolo dell’epidemia del coronavirus di particolare rilievo riconducibile sia per il numero delle persone coinvolte, sia per il numero delle vittime che purtroppo si sono dovute e si debbono ancora registrare e sia per il trattamento riservato a tale categoria anche sotto il profilo della garanzia costituzionale del diritto alla salute. Vi sono almeno tre aspetti che caratterizzano questo argomento durante il periodo della pandemia: il numero dei cosiddetti anziani colpiti dalla malattia rappresenta una quota determinante dell’intero fenomeno; la circostanza che circa metà delle vittime del coronavirus risiedeva nelle case di cura e nelle strutture socio sanitarie a lunga degenza, la discriminazione a cui la categoria è stata sottoposta.
L’Italia ha dovuto contare un numero elevatissimo di deceduti per coronavirus: le statistiche emanate ufficialmente si attestano su un livello di circa trentacinquemila, mentre nella realtà se ne contano più di cinquantamila. Perché questa differenza? Il numero dei deceduti comunicato ufficialmente riguardano i decessi avvenuti in ambito ospedaliero. A questi, ormai è assodato, vanno aggiunti anche quelli occorsi nelle abitazioni e che riguardano i colpiti dal virus che non hanno potuto trovare ricovero presso le strutture sanitarie. Il dato sul quale voglio soffermarmi riguarda il numero degli
anziani morti. Considerando la sommatoria dei decessi degli anziani ospedalizzati, con quelli avvenuti nelle abitazioni e nelle strutture RSA e nelle case di riposo, si raggiunge l’85% rispetto al reale numero totale dei decessi.
Per quanto concerne la maggiore suscettibilità all’infezione da parte degli anziani occorre riferirsi al pensiero prevalente degli specialisti. La loro teoria identifica lo stato di fragilità dell’anziano con la presenza di comorbilità preesistenti. E’ un fatto innegabile che molte persone anziane presentino stati di morbilità più rilevanti rispetto alla restante popolazione, ed i loro meccanismi di difesa, rispetto alla popolazione giovanile, negli anziani risultano indeboliti e per tale motivo, essi risultano più facilmente esposti alle aggressioni da parte di agenti patogeni come si è evidenziato durante l’epidemia in
atto. Dobbiamo prendere coscienza di questa realtà alla quale, alla luce delle attuali conoscenze prevenzionali, non ci è consentito porre definitivo rimedio. Ma, al di là delle considerazioni appena esposte, emergono dei comportamenti, relativamente alla popolazione degli anziani, comprensibili ma non facilmente accettabili. E’ noto, infatti, che a fronte di una marcata carenza di posti letto nelle strutture ospedaliere, i responsabili delle stesse sono stati costretti, gioco forza, ad operare delle scelte sulla tipologia dei malati che “meritavano” un ricovero ospedaliero, in particolare all’interno dei
reparti delle terapie intensive. Non vorrei essere stato nei panni di coloro che, per necessità contingenti, hanno dovuto scegliere chi, tra gli esseri umani che reclamavano un aiuto, dovesse essere ospitato nelle strutture sanitarie e chi, invece, dovesse essere curato, ovviamente, senza i dispositivi salvavita quali i respiratori, nelle proprie abitazioni.
Particolarmente toccante è stata l’esperienza vissuta da un soggetto che ha successivamente deciso di renderla pubblica: era ricoverato presso una terapia intensiva accanto ad una persona di circa ottanta anni. In carenza di bombole di ossigeno, indispensabili per facilitare la respirazione delle persone in cura, è stato disposto di rimuoverla dal letto della persona anziana poiché, a parere dei sanitari, tale soggetto non avrebbe avuto possibilità di guarigione, e installarla, invece, nella sua postazione. Prescindendo dalla oggettiva difficoltà umana di procedere ad una simile decisione che,
comunque, ha determinato la morte dell’anziano, quale potrà essere lo stato d’animo del soggetto graziato dal solo fatto che, accanto al suo letto, vi fosse ricoverata una persona più anziana di lui? La vita, alle volte, ci riserva degli sviluppi che mai avremmo immaginato: infatti, nella situazione inversa sarebbe stato il soggetto graziato ad essere condannato a
morte, cioè privato del dispositivo che gli consentisse di sopravvivere. Quali saranno, nel futuro, le emozioni del soggetto sopravvissuto quando la sua mente lo riporterà a quella situazione: io sono vivo grazie alla morte del mio vicino di letto.
Si tratta di un pensiero sconvolgente che avrà certamente necessità di essere elaborato psicologicamente per non avere riflessi negativi nel rapporto con le persone più anziane.
Non è mia intenzione addentrarmi ulteriormente nei risvolti e nelle conseguenze psicologiche che tale situazione può avere determinato nella vita delle persone coinvolte. Nell’ottica della presente trattazione, voglio invece mettere in risalto il rapporto che intercorre tra la fragilità propria degli anziani e gli aspetti connessi ad una organizzazione sanitaria messa in crisi da una pandemia inaspettata, alla quale è stata data risposta utilizzando parametri, a mio avviso, inappropriati.
Mentre in Italia il problema del sottodimensionamento delle terapie intensive ha determinato situazioni discriminanti non contemplate ufficialmente da alcun protocollo sanitario, in Olanda gli over 70 hanno ricevuto un modulo con il quale si richiedeva loro di non in cui si richiedeva loro di non ricoverarsi in ospedale per non sottrarre posti nosocomiali a coloro che presentavano maggiori possibilità di guarire. Si tratta di una iniziativa vergognosa che, ed è questo l’elemento di forte preoccupazione, rivela l’effettivo ruolo delle persone anziane all’interno delle moderne società. Ma soprattutto mette in evidenza che, all’interno di tale organizzazione sociale, l’individuo che sia stato estromesso dal contesto produttivo, in particolare per mera ragione anagrafica, perde la propria titolarità come soggetto a cui sono attribuiti determinati diritti. In un contesto sociale dove sia prevalente l’accumulo di ricchezza e dove la scala sociale premia l’egoismo e la competitività tra i soggetti, la presenza di un anziano rappresenta una causa o una concausa responsabile di un eventuale rallentamento nel raggiungimento degli obiettivi citati. Diviene allora facile immaginare quale sarà l’individuo che sarà gettato dalla torre: la persona che potenzialmente non risponda pienamente ai requisiti di efficienza richiesti da un contesto in cui risulta centrale la conflittualità organizzata. Ma se l’iter messo in atto da codesta società è questo occorre allora riflettere sul concetto di efficienza. Può essere la persona anziana, ma può essere altresì la persona giovane non rispondente alle peculiarità del contesto. Accettare tale principio, che può avere, senza dubbio, valide ragioni connesse all’eccezionalità degli eventi, comporta l’esigenza di una diversa classificazione del concetto di efficienza. Al di là della situazione contingente verificatasi per l’epidemia da coronavirus, permane da valutare il reale apporto con cui ogni singola persona può contribuire al raggiungimento degli obiettivi sociali. Se il parametro consiste nell’efficienza connessa allo stato di salute delle persone, allora è prevedibile una maggiore selezione anche nell’ambito degli anziani. L’età anagrafica non è l’unica variabile per determinare lo stato di salute delle persone. Vi sono delle persone classificate anagraficamente come anziane che si trovano in perfetta efficienza fisica e mentale per cui la loro estromissione dal contesto produttivo rappresenterebbe un’ azione quanto mai inopportuna sotto molti aspetti. Inoltre accettare a priori il principio della selezione può significare il dover estendere la selezione anche ad altri ambiti. Ad esempio, un soggetto giovane che sia in cerca di occupazione potrebbe essere valutato dai potenziali datori di lavoro sulla base del proprio stato di salute, il quale ne determinerebbe l’opportunità di procedere o meno all’assunzione. Oppure, addirittura, pretendere dal candidato una valutazione sanitaria delle indagini diagnostiche effettuate, che consenta di prevederne l’evoluzione futura.
La carenza delle strutture sanitarie (terapie intensive, posti letto etc), drammaticamente evidenziatasi durante la pandemia del coronavirus, è ascrivibile ad una errata valutazione, da parte degli esperti in materia, che ha peccato di eccessivo ottimismo, soprattutto se si confronta la situazione italiana rispetto a quella di altri paesi. L’esigenza di effettuare concreti risparmi, limitando al minimo gli investimenti destinati alle strutture sanitarie, si è basata sul convincimento che il potenziale a disposizione fosse assolutamente adeguato alle necessità emerse nel corso degli anni.
Non si è tenuto conto del fatto che il livello di benessere sanitario goduto dalla popolazione avrebbe potuto entrare in difficoltà a causa di elementi non previsti come l’attuale coronavirus.
I tagli economici ed organizzativi che hanno interessato la sanità pubblica, iniziando dal numero chiuso nelle facoltà di medicina fino ad arrivare alla chiusura di Presidi Ospedalieri, hanno determinato non soltanto un deficit strutturale ma anche una notevole carenza di personale specializzato quale quello necessario per garantire l’attività dei reparti di terapia intensiva. Secondo l’opinione4 degli esperti il personale della terapia intensiva si formerebbe sul campo grazie ad anni di lavoro all’interno delle stesse realtà. In molti casi si è dovuto ricorrere, per far fronte all’emergenza pandemica in ambito ospedaliero, a medici in possesso di altre specialità, e, quindi, senza una formazione specifica, dirottandoli nelle strutture di terapia intensiva con tutte le conseguenze del caso.
In alcune regioni italiane, per ovviare alla grave carenza di strutture specialistiche, sono stati dedicati interi reparti i cui ospiti erano pazienti affetti da coronavirus, in altri casi sono stati costruiti in pochissimo tempo, dal nulla, le strutture mancanti. Si è trattato di investire adeguate forze lavoro e costi economici relativi. Nel caso di Milano, ad esempio ma non è l’unico, sono stati trasformati interi padiglioni della fiera in reparti di terapia intensiva, muniti di tutte le attrezzature occorrenti. Ciò permise, in meno di tre mesi, di raddoppiare il numero delle terapie intensive italiane. Tuttavia, non è stato possibile porre rimedio, con la stessa urgenza, all’esiguità numerica del personale medico ed infermieristico specializzato per quelle realtà. Per sopperire si è dovuto ricorrere, in alcuni casi, a personale specializzato proveniente da altri Paesi non soltanto europei; alcuni sanitari sono giunti anche da Cuba. Tale situazione che, come dicevo, in tempi
di grande emergenza non può che essere superata al meglio delle possibilità, dovrà essere attentamente esaminata per trarre da essa le considerazioni necessarie rispetto alle garanzie che lo Stato italiano ha l’obbligo di offrire ai propri cittadini.
Il nostro Paese si caratterizza, fin dalla costituzione del regime democratico parlamentare, nel riconoscimento della sovranità del popolo. L’essenza di tale principio, e non poteva che essere così, è esplicitato dall’art. 32 della nostra Carta di riferimento che afferma: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività. Il dettato costituzionale sancisce un principio caposaldo di ogni interpretazione: la salute del singolo cittadino riguarda il patrimonio dell’intera collettività in cui egli agisce. Se questo principio rappresenta l’unico parametro di giudizio
possibile può essere congruente allo stesso mettere in atto un sistema discriminante che mina alla radice lo stesso principio? E’ sufficiente si manifesti una situazione pandemica che ha reso evidente l’inadeguatezza del nostro sistema sanitario, salvo alcune realtà regionali, per debellare il principio costituzionale appena ricordato? Tuttavia la problematica dell’anziano, in una moderna società organizzata per obiettivi speculativi, non mostra i suoi limiti solamente nell’ambito del sistema sanitario. Il ruolo dell’anziano rappresenta, infatti, una problematica che riveste un’ importanza più complessiva: egli deve essere inteso come una risorsa oppure come un peso di cui, giocoforza, occorre farsi carico? In alcuni casi l’anziano è considerato una risorsa del sistema: l’anziano in buona salute rappresenta un valido contributo per la famiglia deputato ad assistere i nipoti quando i genitori sono impegnati nelle loro attività lavorative; inoltre, spesso, gli anziani fungono da supporto economico contribuendo al mantenimento dei loro cari quando gli stessi non sono in grado di garantire un reddito sufficiente alle loro famiglie. L’esigua pensione percepita dall’anziano viene quindi messa a disposizione del nucleo familiare di cui fa parte sopperendo così a situazioni di crisi economica. E come risorsa per la società l’anziano viene altresì impiegato come ausiliare del traffico automobilistico nelle immediate vicinanze delle scuole agevolando l’entrata e l’uscita dei minori.
Voglio, a questo punto, citare un episodio che mi ha fatto riflettere. Una persona anziana, titolare di pensione, non certamente rilevante, mi ha confidato che la stessa era destinata anche al mantenimento del proprio figlio disoccupato perché licenziato per la chiusura dell’esercizio commerciale di cui era dipendente a causa del look down. Ebbene questo
anziano non si lamentava, anzi! Ed è questo atteggiamento che mi ha fatto riflettere. Ha trovato, infatti, nell’attuale situazione, un motivo per sentirsi ancora utile.
Come può un’organizzazione sociale sentirsi appagata quando una larga fascia di persone che, a suo tempo, hanno concorso al benessere complessivo della società nella situazione economicamente e socialmente drammatica del dopo guerra, ove si trattava di ricostruire l’intero Paese provvedendo alle più elementari necessità una volta raggiunto uno pseudo benessere confinare quelle stesse persone ai margini e privarle del diritto costituzionale di essere cittadini partecipi e responsabilizzati? Si potrebbe contestare tale modo di interpretare la realtà affermando che la società risulta talmente consapevole della problematica che si è premurata di predisporre quanto necessario per garantire agli anziani una vita dignitosa mediante l’elargizione di un reddito pensionistico. Tale reddito, tuttavia, è reso possibile dai versamenti effettuati dalle stesse persone all’Istituto previdenziale per oltre quarant’anni, sottraendo tali somme alla retribuzione percepita per l’espletamento della propria attività lavorativa. Non si tratta, quindi, neppure di una elargizione che lo Stato, riconoscente, versa all’anziano, ma di una posticipazione accumulata nel tempo di parte della retribuzione. La prassi pensionistica rappresenta senz’altro un utile progetto fin dal periodo dell’Illuminismo, ma non risolve, anzi conferma, il problema di fondo. Gli anziani necessitano sicuramente di un reddito pensionistico al fine di garantirsi una meritata tranquillità dopo una vita spesa per la società, ma soprattutto hanno l’intima esigenza di non sentirsi inutili e di non
sentirsi un peso che altri debbono purtroppo sobbarcarsi. La remunerazione pensionistica non può rappresentare il prezzo per mezzo del quale sia garantito alla società di non essere intralciata e frenata nei suoi propositi dai soggetti anziani. Essi, infatti, hanno bisogno di essere attivamente presenti anche nelle scelte di lungo respiro apportando quel bagaglio che posseggono e che un tempo era considerato un valore imperdibile: la saggezza derivante dall’esperienza.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma se il contesto valoriale non è più sovrapponibile a quello che ha determinato la cosiddetta saggezza, risulta ancora sostenibile tale principio? Personalmente sono propenso ad affermarne la sostenibilità in considerazione4 che il contesto valoriale moderno rappresenta una variabile dipendente da un sistema di
valori appartenenti ad una organizzazione pregressa organizzazione sociale. Si tratta, quindi, a mio avviso, di recuperare quanto può essere messo in comune dagli anziani, e, soprattutto, di non ignorare il notevole contributo che gli artefici del passato possano sono in grado di garantire. Relegandoli ai margini della nostra società si rinuncerebbe a priori a tale ricchezza, sperperando un prezioso capitale accumulato con anni di vita vissuta.
L’esperienza che, giocoforza, abbiamo vissuto a causa della pandemia da coronavirus dovrebbe renderci consapevoli della necessità di modificare sostanzialmente alcuni tratti della nostra società. Uno di questi, come affermavo in precedenza, risiede nel rapporto con le persone definire anziane. Riflettendo sulla forzata convivenza che il periodo
dell’epidemia ci ha costretti, ritengo che la tipologia degli appartamenti moderni escluda, di fatto, la presenza dell’anziano. In un alloggio di 40/50 metri quadri risulta appena sufficiente per la coabitazione di una famiglia composta da padre, madre e un figlio. La presenza dei nonni non consente una convivenza accettabile. I nonni, secondo la cultura
prevalente, devono vivere per conto loro, in un loro appartamento oppure all’interno di una casa di riposo.
La seconda rivoluzione industriale, caratterizzata dalla crescita esponenziale della capacità produttiva di beni e servizi, ha frantumato il rapporto esistente all’interno delle famiglie. Infatti, precedentemente alla seconda rivoluzione industriale, quest’ultime in merito alla presenza dell’anziano, riconoscevano questa figura come il catalizzatore dei principi che
avevano retto fino a quel momento il divenire del vivere civile. La tipologia strutturale delle abitazioni era predisposta per la necessità di convivenza di nuclei familiari estesi, non di rado, a due o tre generazioni. L’anziano, e faccio mio il pensiero di Cicerone, rappresentava il timoniere che sceglieva la rotta più adeguata per condurre la barca in un porto sicuro al riparo da eventuali tempeste. Il posto di capo tavola era di pertinenza del nonno poiché veniva considerato con grande riguardo il capo della famiglia. Colui che con la sua sola presenza rassicurava e provvedeva ad ogni necessità della famiglia.
In Olanda, durante l’epidemia da coronavirus, come precedentemente ho già riportato, si è presentata la necessità di individuare quali fossero i soggetti considerati meritevoli di ricovero in terapia intensiva, poiché si presumeva che potessero essere salvati da morte certa. Nel nostro Paese non è mai stata messa in atto tale scelta discriminatoria.
Ufficialmente, quindi, il nostro sistema sanitario non ha selezionato gli aventi diritto al ricovero nosocomiale, come prescritto dalla Carta Costituzionale. Nella realtà, tuttavia, si è ricorso a tale sistema per determinare la priorità, relativa all’ospedalizzazione, considerato che, spesso, il numero dei pazienti ritenuti idonei per il ricovero in terapia intensiva
risultava maggiore dei posti effettivamente disponibili. I soggetti non accettati sono rimasti nelle loro abitazioni rappresentando così un probabile rischio di contagio per i propri familiari. Il Sindaco di una città lombarda ha reso pubblico uno studio elaborato con i dati forniti dall’anagrafe: il numero dei morti riscontrato nel trimestre del coronavirus è stato quattro volte superiore rispetto a quello che si verifica normalmente in tale trimestre.
Non posso assolutamente dimenticare il corteo di automezzi militari che adibiti al trasporto delle bare dei deceduti in altre città italiane, poiché nel cimitero della città di residenza (una delle maggiori per dimensione della Lombardia) non vi era la possibilità di tumularle a causa dell’esaurimento degli spazi. Una scena terribile, destinata a rimanere nelle nostre menti per molto tempo, ma soprattutto in grado di renderci ancora più consapevoli, se fosse possibile, la cruda realtà del dramma che stavamo vivendo. Non si trattava, purtroppo, di una scena di un film, in quelle bare vi erano salme di persone che fino a pochi giorni prima potevamo incontrare mentre passeggiavano per le vie della città. Ma la tragedia doveva ancora completarsi: la lama doveva maggiormente affondare nelle carni delle vittime, fino in fondo, senza nessuna pietà. La crudeltà della situazione ha negato la possibilità ai parenti dei deceduti perfino di salutarli prima di chiudere gli occhi per sempre al fine di evitare il rischio di contagio. Sono morti nell’isolamento totale e, solo grazie alla sensibilità e compassione di qualche sanitario che ha stretto la loro la mano nel momento cruciale, hanno avuto la possibilità di percepire la confortante presenza di un altro essere umano.
Un accenno a sé merita la situazione venutasi a creare nell’ambito delle RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) nel periodo della pandemia. Le RSA sono strutture di ricovero (sono consapevole che sia un brutto termine, ma lo utilizzo in piena coscienza) dove gli anziani non autosufficienti o quelli che non hanno possibilità di assistenza da parte dei
familiari, perché rimasti soli, o semplicemente perché i giovani desiderano vivere la propria vita in piena libertà, sono ospitati per trascorrere gli ultimi anni della propria esistenza. Il numero dei decessi avvenuti tra i ricoverati nelle RSA, tra gli over 70, in quasi tutta l’Italia, ha assunto proporzioni allarmanti. Il direttore regionale dell’OMS per l’Europa Hans Kluce ha definito quanto è successo nelle RSA “Una tragedia neppure immaginabile” e la stampa la definisce “la strage dei nonni”.
La citata tragedia ha riguardato molte nazioni cosiddette civilizzate: in Italia sono deceduti il 46% degli ospiti, in Belgio il 51%, in Spagna il 66%, in Francia il 50%, in Norvegia il 61%, in Svezia il 45%, in Scozia il 45% (ho citato soltanto nazioni europee, ma la problematica si è , purtroppo, presentata anche in altre nazioni extra europee). Quali sono state le cause? La fragilità degli ospiti rappresenta sicuramente una causa determinante, ma non solo. La carenza delle protezioni necessarie per prevenire il contagio, quali le mascherine, il sottodimensionamento degli organici e l’inadeguatezza dell’abbigliamento dei sanitari. In un caso (non cito la località per carità di Dio) i responsabili della RSA, nonostante, sebbene con ritardo, fossero state recapitati i dispositivi di protezione, imponevano al personale di non indossarle per non allarmare ed impaurire gli ospiti e diffondere così il terrore. Occorre riconsiderare il modello delle RSA. Sono ormai mutate le necessità degli anziani rispetto a quando le stesse strutture sono state istituite (da oltre trent’anni). Soprattutto dovrebbe essere ripensata l’esigenza di garantire il massimo di socialità a persone che, per svariati motivi, se non aiutate, scivolerebbero in uno stato di frustrazione e di progressivo isolamento che potrebbe accentuare ed accelerare il decorso delle patologie di cui sono affette. L’anziano ha certamente la necessità di essere riconosciuto come soggetto attivo pienamente partecipativo all’interno della società riconoscendogli il ruolo che gli è dovuto. Non si deve fare “di tutta l’erba un fascio” classificando tutta la popolazione anziana attraverso un unico parametro. Non voglio ripetermi, ma è un dato di fatto che vi siano degli anziani che, innegabilmente, sono in grado di dar del filo da torcere a molti giovani.

Antonio De Maria, dirigente ANS Liguria, Newsletter dell’ANS, 30 giugno 2020 – N. 09/2020, pp. 6-9.

Fonte: http://www.ans-sociologi.it/

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